“Se può essere scritto, o pensato, può essere filmato”: parola di Stanley Kubrick, l’uomo delle geniali follie. Dove è scritto che la quantità sia più importante della qualità? Sì, è vero. Qualche film in più dell’immenso regista ci avrebbe fatto solo tanto piacere. Ma probabilmente la preziosità di ciò che ci ha lasciato in eredità – e che si spera venga colta nella sua piena essenza – è data anche dall’unicità dei suoi lavori.
Tredici film, a cominciare dall’esordio alla macchina da presa nel 1953 con “Paura e desiderio”, per finire con “Eyes Wide Shut” del 1999, del quale non ha fatto neanche in tempo a godersi il successo. Non sorprende sapere che il regista fosse una persona particolarmente ossessiva e dedita al lavoro nella consueta e maniacale maniera tipica dei professionisti di questo calibro.
Un’etichetta che non voleva gli venisse cucita addosso, però, perché poteva far pensare che non lasciasse spazio all’estemporaneità degli attori. In carriera, in molti lo hanno definito un uomo dal carattere piuttosto al limite, sempre per la sua voglia di consegnare al pubblico il contenuto impeccabilmente pensato nella sua complessa testa.
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Le ossessioni e le follie di Stanley Kubrick

La ricerca del cosiddetto “take perfetto”: questo è sempre stato il peggior incubo degli attori che hanno preso parte ai capolavori del regista. Tali perché per una scena di pochi minuti si poteva prolungare il set per settimane. E settimane. Come nel caso della scena in “Eyes Wide Shut”, quando Bill, il protagonista interpretato dal solito magistrale Tom Cruise, si aggira per il quartiere mentre viene osservato a distanza da un uomo sospetto.
Nell’occasione, Bill compra un quotidiano nell’edicola situata in strada. Quei pochi minuti si trasformarono in quattordici giorni di set. Per l’ultimo film alla regia, Kubrick impiegò ben otto volte in più rispetto al tempo previsto inizialmente. I due mesi stimati in origine, si trasformarono in un anno e tre mesi. Un altro esempio della ricerca della perfezione è la pellicola di “Shining”, al cui doppiaggio lavorò anche Giancarlo Giannini, oggi premiato con la stella sulla Walk of Fame a Hollywood. Un risultato mostruoso frutto di un lavoro incredibilmente molto più impegnativo del risultato finale. Scontato, è vero. Ma il gap qui è alto. Proviamo a individuarlo con le cifre.
Di solito il rapporto tra le pellicole scartate e quelle utilizzate si aggira tra il 5 e il 10:1. Nel caso di “Shining”, il rapporto è di 102:1. Il regista utilizzò solo una piccolissima parte rispetto a quanto registrato. Si parla dell’1%, solo per dare l’idea.
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Kubrick non voleva essere riconosciuto come un regista ossessivo perché questa sua maniacale ricerca della perfezione in realtà non limitava l’estro dei suoi attori. Un aspetto determinante, perché se è vero che impiegasse dieci volte il tempo che bisognerebbe dedicare ad una scena – almeno nelle previsioni – sembrerebbe altrettanto scontato che questo comportasse un limite alle improvvisazioni degli interpreti.
Eppure, non accadeva questo, non sempre sicuramente. La “manipolazione scenografica”, se così vogliamo intenderla, avveniva alla radice, questo sì. Ma mai in cima, dove l’attore poteva metterci del suo. Tuttavia, quelle radici a volte spingevano fino al limite della sopportazione i suoi attori. Esempio ne è l’esaurimento nervoso causato a Shelley Duvall nei panni della famosa Wendy di “Shining”. L’attrice fu sottoposta a molto stress perché Kubrick chiedeva a lei, come a tutti, di attuare i suoi metodi piuttosto estremi per entrare nelle parti.
Oltretutto, soprattutto per Shining, Kubrick teneva gli attori sotto stress anche per oltre 10 ore di fila, tempo per il quale restavano impegnati senza soluzione di continuità per una sola sessione. Famosa è quella scena prima del ciak in cui Jack Nicholson sussurra a sé stesso: “Sono pazzo! Io sono pazzo”, e prova ad affondare l’accetta sul lettone.
La fotografia
La carriera professionale di Kubrick, però, nasce con la fotografia. Una passione più che un lavoro, come quella per la musica. Solo che quella per la foto lo ha messo in condizioni difficili su alcuni set, dove i direttori della fotografia avevano da ridire. Un esempio è “Spartacus” del 1960, e Russel Metty venne messo in panchina, non senza strascichi. “Mi ha rubato il lavoro”, lo accusò. Peccato, però, che “Spartacus” portò a casa l’Oscar proprio per la migliore fotografia.
La lettura

Un’altra grande passione, molto più incline anch’ella all’ossessione, era la lettura. Da lì prendeva spunto per la realizzazione dei suoi film. Con la lettura, arrivava l’idea e su quella basava la scelta dei suoi attori. Un esempio della sua ricerca maniacale collegata alla lettura è il lavoro impiegato per “Napoleon”, film mai portato a termine.
Pensate che lesse oltre 100 libri in merito per arrivare a padroneggiare pienamente la materia e per una scena di battaglia, si appropinquò ad esaminare nei dettagli un dipinto per intuire il meteo in quel determinato giorno, al fine di proporre una condizione quanto più simile alla realtà.
Gli scacchi, gli animali, la personalità

Era schivo. Non voleva essere riconosciuto, Stanley. A volte, quando qualcuno lo cercava in un momento indesiderato, aveva la facoltà di dire: “Kubrick non c’è”. Questo proprio per la sua personalità riservata. Non si mostrava molto ed infatti non tutti lo riconoscevano quando lo incontravano. Per lui era un’arma, gli permetteva di agire liberamente e dare sfogo al suo estro senza intralci particolari.
Amava gli scacchi, al punto da essere capace di interrompere una giornata di set per sfidare qualcuno che si presentasse al lavoro con una scacchiera. E poi adorava gli animali, in particolar modo i suoi 16 gatti. Quando aveva un’idea che gli piaceva e un progetto stimolante, era solito contattare i propri conoscenti, anche nel cuore della notte, per condividere, creare, parlare di lavoro.
Kubrick dormiva poco, preferiva lavorare. Tra le curiosità della sua personalità c’è sicuramente il terrore del volo. Un’ossessione che lo portava ad informarsi costantemente sui controlli del traffico dell’aeroporto di Heathrow. Lo raccontò l’attore Malcom McDowell che aggiunse di aver ricevuto il consiglio dal regista in persona di non volare mai.
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