Era il 1977 quando La febbre del sabato sera uscì nelle sale degli States – e qualche mese dopo anche in quelle italiane – e ancora non si sapeva quale rivoluzione pop avrebbe portato con sé. Un film a basso costo, i cui attori erano stati quasi tutti reclutati per strada, nei quartieri dove venne girato, che univa il disagio giovanile alla gloria ottenuta in un microcosmo, quello di una pista da ballo. Nulla di speciale, una storia piccola, di periferia, raccontando gente proletaria e ignorante, di cui non importava nulla a nessuno. E invece 45 anni dopo siamo ancora qui, a parlarne ammirati. Perché di storie così, capaci di fotografare nitidamente un’epoca, una generazione, una condizione sociale, ce ne sono davvero poche.
Genesi de La febbre del sabato sera
John Badham aveva letto un articolo apparso sul “New York Magazine”, Tribal Rites of the New Saturday Night. Parlava di una frenesia, una sorta di follia invasata per la dance music. Una generazione in un luogo preciso: adolescenti dei quartieri poveri di New York City che trovavano il loro riscatto sulla pista da ballo, che letteralmente vivevano per mettersi in mostra il sabato sera, occhio di bue puntato su un palco che era la pista, un pubblico sempre uguale, accettazione, affermazione, per una volta a passi di disco dance e non di coltello. L’autore dell’articolo, il critico musicale britannico Nik Cohn, una ventina d’anni dopo confessò che il pezzo era frutto d’invenzione più che d’osservazione di quanto avveniva realmente. Che poi però divenne vero dopo l’uscita del film, per imitazione. Un po’ come chiedersi se è nato prima l’uovo o la gallina. E Tony Manero, in quella storia là, era esattamente il gallo nel pollaio.
Lo avevano proposto a Henry Winkler, meglio conosciuto come Fonzie, poi a Patrick Swayze, che si pentirà per tutta la vita di aver detto di no. Poi Badham un giorno vide John Travolta in teatro, che interpretava Danny Zuko in Grease, il musical. Era lui il suo Danny, lo sapeva. E John accettò, a patto di poter apportare delle modifiche alla sceneggiatura originale. Lui a New York ci viveva, mentre Badham al massimo conosceva Manhattan: non sapeva un bel niente di come funzionava la testa di quei ragazzi là, figli di immigrati che ancora mescolavano l’italiano con l’inglese, che si facevano il segno della croce ogni minuto e che lottavano per comandare su un pezzo di marciapiede senza valore. Tony inizialmente doveva essere un bravo ragazzo italiano, il good boy di quartiere che faceva favori a tutti, che aiutava le vecchiette… Travolta disse che un tipo così esisteva solo nella testa degli sceneggiatori, che Tony avrebbe dovuto essere un nichilista che pensava solo a come stordirsi per dimenticare la realtà… e che si sarebbe stordito con l’ammirazione degli altri sulla pista. Gli applausi e le grida avrebbero dovuto essere la sua droga. Poi sarebbe tornato a vendere vernici e a dividere un buco di casa con troppi familiari, poster di Rocky e di Serpico in camera, completo in poliestere di cattivo gusto e capelli gonfiati colpi di phon.
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Perché La febbre del sabato sera è ancora un cult
In Italia, dove quella condizione in quegli anni apparteneva a tanti giovani, all’alba del boom economico degli anni Ottanta, rimasero impresse più che altro le scene di ballo. I nostri genitori si vestivano già in quel modo, non c’era molta classe tra i diciannovenni: completi in poliestere, camicie con il collo a punta, molto aperte, catene e croci d’oro, petto irsuto in vista e chi più ne ha più ne metta. La percezione fu diversa, il doppiaggio ripulito da tante volgarità e il taglio di cinque minuti di un paio di scene considerate troppo forti fecero il resto. La febbre del sabato sera ci venne tramandato come un film sul ballo. E attenzione: non è un musical. La storia non progredisce grazie a testi di canzoni che sono parte integrante del dialogo, le scene ballate sono scene ballate e basta. Si tratta di un dance movie, di quelli che, da allora in poi, parlano di riscatto e affermazione, sempre e comunque.
Eppure, a rivederlo in età matura, salta all’occhio immediatamente qualcosa: La febbre del sabato sera è un film sul disagio giovanile. Da Gioventù bruciata mancava un personaggio così – e infatti James Dean viene omaggiato nell’abbigliamento del film – c’era stato Mean Street di Scorsese, ma poi non si arriverà a livelli così alti fino a 8 Mile, con Eminem, storia dello stesso riscatto da un presente claustrofobia e un futuro utopico a colpi di rap jammato. La consapevolezza, l’alternanza di situazioni meschine, il razzismo, la violenza sulle donne, l’ignoranza, il bisogno di appartenenza e le regole in un quartiere dove la legge vigente è quella della gentaglia che ci vive. In cui gli amici possono abusare in branco di una ragazza ed è lei a diventare la sgualdrina. L’unica soluzione è mandare tutto al diavolo e andarsene via, come fa Tony. Dopo innumerevoli fughe da fermo che, come acidi lisergici, fanno vedere luci colorate e gloria in un presente fittizio, parallelo a quello grigio e durissimo della realtà.
La critica osannò questo piccolo film, John Travolta ottenne una nomination all’Oscar come Miglior Attore, la prima, a soli 22 anni. E pensare che fu la sua compagna, Diana Hyland a convincerlo ad accettare il ruolo… Lui la perse per un cancro al seno e le riprese si fermarono per un po’. Poi tornò e molta della cattiveria di Tony era solo il frutto della sua rabbia e del suo dolore.
Iconografia de La febbre del sabato sera
Era nato come un omaggio alla dance music. John Travolta prendeva in giro Badham per questo: diceva che la disco andava di moda tra il 1974 e il 1976: quella era una operazione nostalgia. Ancora una volta, gli adulti non capivano niente e arrivavano in ritardo nella descrizione degli adolescenti. Ma poi il film uscì. La discoteca, la 2001 Odissey, palese omaggio a Kubrick, esisteva davvero, ma non aveva alcun pavimento luminoso. Fu installato dagli scenografi e, dopo il successo del film, non ci fu discoteca al mondo che non ne volle uno.
Ancora: il famoso completo bianco in poliestere – nel film erano due perché John Travolta sudava moltissimo a ballarci dentro e doveva sostituirlo sovente – che rimanda un po’ l’idea del boss del quartiere, è icona di quell’eleganza di bassa lega, da ripuliti, che ancora oggi viene riprodotta. E se qualcuno vuol dire di essere bravo a ballare senza parlare, state pur certi che assumerà una posa del corpo in diagonale, con il braccio alzato e l’indice al cielo. Tutto ha contribuito a creare una vera e propria iconografia, quasi religiosa per milioni, per legioni di fan.
Ma fu la colonna sonora la vera rivelazione. I Bee Gees, con la loro Fever Night, con Staying Alive and More Than A Woman si imposero sulla scena mondiale. Il disco fu il più venduto di sempre e il primato gli rimase per anni. Fu surclassato solo all’avvento di Thriller di Michael Jackson, ancora oggi in testa. Curiosità: nel video di Billie Jean, Michael balla su una passerella con maioliche che si illuminano. Tra le colonne sonore, il doppio LP contenente le canzoni de La febbre del sabato sera rimase il più venduto fino quando non arrivò Guardia del corpo, con la celeberrima cover di I Will Always Love You interpretata da Witney Houston.
John Travolta che balla, non tanto nella scena della gara, quanto quel suo a solo: la gloria negli occhi, il sogno di ogni ragazzo che voglia qualcosa di diverso che correre dietro a un pallone.
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