Si sente una donna, si appropria del nome Emanuela (prima era Emanuele) e per il giudice è “tutto occhei”: dunque, via al cambiamento, senza passare dall’intervento chirurgico che ritiene “umiliante”. Ha 53 anni e da 20 conduce battaglie, fatte di processi, sofferenze. Alla fine il tribunale della sua città, Trapani, gli riconosce il diritto di rettificare i dati anagrafici della sua carta d’identità.

Il tutto è regolare, secondo una sentenza della Cassazione di otto anni fa, che stabiliva la possibilità di cambiare sesso senza bisogno di sottoporsi a interventi chirurgici.

L’intervista

(Estratto dal Corriere della Sera)

Come mai la decisione di non sottoporsi a terapie né interventi? Le sentiva come una violenza?

«Credo che questa debba essere una libera scelta. In tante la fanno, io non ho voluto: mi sono sempre sentita una donna e non do importanza al mio aspetto e a quello che pensano gli altri. Non devo dimostrare nulla. Del resto ci sono persone che grazie alle terapie ormonali diventano donne bellissime, ma che alcuni continuano a considerare uomini».

Nella vita di tutti i giorni ha difficoltà, percepisce intolleranza?

«I pregiudizi ci sono sempre, ma non ho mai avuto grandi problemi. Sarà anche grazie al mio carattere gioviale, ho rapporti ottimi con tutti».

Un problema pratico: quando è al ristorante e deve andare in bagno che fa?

«Vado in quello degli uomini: la carta di identità non è stata aggiornata e dunque il cambio di genere non risulta ancora, per cui se andassi nel bagno delle donne e qualcuno avesse da obiettare non potrei ribattere».

Un disagio che presto scomparirà, ma intanto…

«Le racconto un episodio emblematico. Un po’ di tempo fa mi sono fratturata un dito e sono stata ricoverata in ospedale. Ero in un reparto maschile, ancora stordita dall’anestesia e dunque non potevo andare in bagno per fare pipì.

Ma proprio non riuscivo a farla davanti agli altri pazienti: mi sono sentita umiliata, frustrata. Quando ho detto agli infermieri che sono transgender si sono messi a ridere, nemmeno sapevano il significato della parola. Per fortuna un dottore mi ha confortato, ha detto: siamo ancora un Paese incivile».

L’avvocato Mione, che ha accettato il difficile incarico di assistere Emanuela, ha ricevuto i complimenti di molti colleghi, alcuni dei quali gli hanno confessato che al suo posto non lo avrebbero fatto.

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