Sono passati più di trent’anni di silenzi, misteri e bugie in merito alla strage di Via D’Amelio, ma non è ancora stata scritta la parola fine, perché i magistrati sono tornati a riesaminare i fascicoli d’archivio. A ottobre, c’è stata una proroga delle indagini che mirano a capire l’eventuale coinvolgimento della mafia americana. Il gip del tribunale di Caltanissetta, infatti, due anni fa respinse la richiesta di archiviazione perché fu valutata ancora la necessità di fare luce. La procura di Caltanissetta non ha mai mollato le indagini e, sotto la direzione di Salvatore De Luca, prese in esame il dossier mafia e appalti sul quale Paolo Borsellino si stava dedicando negli ultimi tempi di vita. Per la famiglia del magistrato potrebbe essersi trattato del motivo dell’atroce attentato in cui persero la vita anche gli agenti della sua scorta.
Gialli, silenzi, misteri, bugie: la strage di via D’Amelio
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Al quarto piano del palazzo di giustizia di Caltanissetta, sede della procura della Repubblica, le dichiarazioni dell’omicida Gaspare Spatuzza hanno rivelato l’inganno del falso pentito Vincenzo Scarantino, le stesse hanno permesso di avviare l’indagine sul depistaggio architettato da alcuni membri della polizia. Dopo trenta sofferti anni, sono stati riconosciuti come responsabili “uomini dello Stato“. Ma perché i poliziotti lavorarono per il depistaggio? Qual era il motivo se non favorire la mafia, quindi il boss Giuseppe Graviano, dato che l’ipotesi di ottenere presto un risultato è stata ritenuta “troppo riduttiva” dagli avvocati della parte civile? E se così non fosse stato, chi si stava proteggendo?
Le ultime indagini
Nel lungo video che la procura fece realizzare dalla Scientifica non compaiono i volti dei mafiosi. Ancora ci si domanda se tra quelli che vi sono, ancora senza nome, ci fossero il ladro dell’agenda rossa del magistrato o l’agente dei servizi segreti. Già, quell’agente di cui parla uno dei primi poliziotti giunti sul posto della strage in via D’Amelio. E c’è un altro uomo di cui ha parlato il pentito Spatuzza. Dopo l’archiviazione richiesta dalla procura a carico di Maurizio Avola, il gip ha quindi disposto di recente le nuove indagini. Avola è il killer spietato di Catania e collaboratore di giustizia, ora fuori dal programma di protezione.
Il gip del tribunale di Caltanissetta respinse la richiesta di archiviazione due anni fa, perché si voleva e si vuole accertare se nell’attentato vi sia stata la partecipazione di personaggi estranei a Cosa Nostra. Maurizio Avola, il pentito che aveva svelato tramite un libro di essere tra gli assassini della strage, vestito da poliziotto. Ci si chiede se non l’avesse fatto per allontanare tutti i sospetti sugli uomini senza volto? La morte di Borsellino, sebbene sia stato fatto qualche passo avanti per chiarire gli aspetti collaterali della tragedia, resta ancora pregna di mistero, silenzi e bugie.
Avola ha detto di aver assistito a tutto quella mattina, di aver persino incrociato lo sguardo di Borsellino prima che la Fiat 126 esplodesse. Finora, “le ricostruzioni giudiziarie operate non hanno potuto ricostruire compiutamente la fase dell’imbottitura e del collocamento della fiat 126 sul luogo dell’esplosione, nè l’identità di tutti i soggetti del commando che agì in via D’Amelio, nè chi ebbe materialmente ad azionare il congegno di detonazione dell’ordigno (e da dove)”, ha scritto il gip pochi mesi fa.
L’autore dell’attentato tre settimane prima andò “Fuori dalla Sicilia…”
Un uomo misterioso, un altro Mister X “il giorno prima dell’attentato“. Era “nel garage di via Villasevaglios” in cui veniva caricata l’autobomba. “C’era una persona che non conoscevo“. L’autore dell’attentato, Giuseppe Graviano, il capomafia di Brancaccio incaricato da Salvatore Riina, partì “all’inizio di luglio” ed andò “fuori dalla Sicilia“. Lo aveva detto il suo autista, ad oggi collaboratore di giustizia, Fabio Tranchina. Dunque, le altre domande senza ancora una risposta: il luogo dove si era recato, qual era? E, soprattutto, chi doveva incontrare?
La tragedia
Quel giorno, l’autobomba uccise il giudice Paolo Borsellino e i cinque agenti di scorta: Agostino Catalano, Walter Eddie Cosina, Vincenzo Li Muli, Emanuela Loi e Claudio Traina. 57 giorni prima morì Giovanni Falcone: il Paese rimase interdetto dinanzi alla doppia tragedia, anche alla luce del fatto che si trattava della “seconda morte annunciata”. “Sono turbato. Sono preoccupato per voi perché so che è arrivato il tritolo per me e non voglio coinvolgervi”, pronunciava queste parole il giudice. L’unico sopravvissuto fu Antonino Vullo:
“Borsellino e i miei colleghi erano già scesi dalle auto, mentre io ero rimasto alla guida. Stavo facendo manovra per parcheggiare la vettura che si trovava alla testa del corteo. Non ho sentito alcun rumore, niente di sospetto, assolutamente nulla. Improvvisamente è stato l’inferno. Ho visto una grossa fiammata, ho sentito sobbalzare la blindata. L’onda d’urto mi ha scaraventato dal sedile. Non so come ho fatto a scendere dalla macchina. Attorno a me c’erano brandelli di carne umana sparsi dappertutto”.