L’azienda di alta moda Alviero Martini è stata commissionata perché sarebbero stati “massimizzati i profitti con opifici cinesi”
L’azienda di alta moda Alvierio Martini spa, che produce in particolare borse e scarpe, è stata commissionata ieri, 17 gennaio, dalla Sezione misure di prevenzione del Tribunale di Milano, in un’inchiesta dei carabinieri del Nucleo Ispettorato del Lavoro e dei pm Paolo Storari e Luisa Baima Bollone poiché “ritenuta incapace di prevenire e arginare fenomeni di sfruttamento lavorativo nell’ambito del ciclo produttivo.” Sarebbero inoltre stati “massimizzati i profitti usando opifici cinesi facendo ricorso al lavoro nero e ai clandestini”.
Il commissariamento è stato disposto dalla Sezione misure di prevenzione gestita da Fabio Roia. Secondo le indagini l’azienda non avrebbe “mai effettuato ispezioni o audit sulla filiera produttiva per appurare le reali condizioni lavorative”. Oltre alle “capacità tecniche delle aziende appaltatrici tanto da agevolare soggetti raggiunti da corposi elementi probatori in ordine al delitto di caporalato.”
Inoltre è stato confermato che l’azienda di moda avrebbe affidato “mediante contratto di appalto con divieto di sub-appalto senza preventiva autorizzazione, l’intera produzione a società terze, con completa esternalizzazione dei processi produttivi.” Mentre le aziende appaltatrici avrebbero “solo nominalmente un’adeguata capacità produttiva e possono competere sul mercato solo esternalizzando le commesse ad opifici cinesi, i quali riescono ad abbattere a loro volta i costi grazie all’impiego di manodopera irregolare e clandestina in condizioni di sfruttamento.”
Funzionava, dunque, che gli operai venivano pagati in nero, in condizioni igieniche sotto il “minimo etico”. Per ogni tomaia fatta, ovvero per la parte di sopra della scarpa, venivano pagati 1,25 euro e per “ogni fibbia rifinita prendevano 50 centesimi”. Restavano in dormitori fatiscenti e abusivi all’interno di grossi capannoni, riposando poche ore. E mangiando “direttamente negli alloggi adiacenti al laboratorio.” Per uno stipendio mensile di 600 euro.
Le testimonianze degli operai
Dalle indagini dei pm vengono a galla alcuni racconti scioccanti dei lavoratori cinesi sfruttati. “Vengo retribuita in base al numero di scarpe lavorate, vengo pagata 1,25 euro a tomaia…non ho mai fatto visite mediche, formazione, non ho mai avuto dpi e non ci sono estintori in azienda.” Ha raccontato agli investigatori un’operaia. Nelle loro testimonianze molti di loro hanno però affermato di “lavorare solo tre ore al giorno”. Affermazioni in parte smentite dall’accertamento da parte dei carabinieri di consumi elettrici nei laboratori e di pezzi prodotti in orari notturni e nei giorni festivi. Proprio quando non veniva fatto alcun controllo.
Condizioni di lavoro “disumane”
Sono stati scoperti otto opifici cinesi tra Milano, Monza e Pavia che incassavano 20 euro per ogni pezzo terminato. Mentre l’azienda lo pagava alla fine 50 euro, rivendendolo al prezzo di 350. Per raggiungere questo “abbattimento dei costi” gli operai lavoravano in condizioni “degradanti”, vivendo in stanze minuscole e in ambienti “pericolosi per la loro salute”. Senza “areazione e luce naturale”.
Sempre secondo l’indagine il 24 maggio 2023 risulta anche il decesso di un uomo sul lavoro. Era un operaio di 26 anni, proveniente dal Bangladesh, morto schiacciato dalla caduta di un macchinario a Trezzano sul Naviglio, in provincia di Milano. Il giorno seguente, “per camuffare l’effettivo status di lavoratore in nero”, una società appaltatrice della catena “inviò il modello telematico di assunzione al Centro per l’impiego e agli enti contributivi e assicurativi Inps ed Inail.” A seguito della sua morte.
La replica dell’azienda
Nel frattempo la società replica alle accuse. “Tutti i rapporti di fornitura sono disciplinati da un preciso codice etico a tutela del lavoro e dei lavoratori al cui rispetto ogni fornitore è vincolato.” Specifica la Alviero Martini, affermando di “essersi messa tempestivamente a disposizione delle autorità, non essendo peraltro indagati né la società né i propri rappresentati, al fine di garantire e implementare da parte di tutti i suoi fornitori, il rispetto delle norme in materia di tutela del lavoro.”
Conclude la note: “Laddove emergessero attività illecite effettuate da soggetti terzi, introdotte a insaputa della società nella filiera produttiva, assolutamente contrari ai valori aziendali, si riserva di intervenire nei modi e nelle sedi più opportune, al fine di tutelare i lavoratori in primis e l’azienda stessa.”