La famiglia, la violenza della periferia, il dolore di una gioventù difficile: Lauro De Marinis, vero nome dell’artista, si confessa in una lunga intervista
Achille Lauro è un fiume in piena nell’intervista di presentazione del singolo “Stupidi ragazzi”: al Corriere ha parlato dell’infanzia difficile, della famiglia complessa, della periferia violenta. Ma non solo, perché c’è tanto da dire quando si fa Lauro di nome e De Marinis di cognome, il vero nome dell’artista. Achille, che quindi chiameremo col nome d’arte, è un uragano, ma si parte piano: “Il pezzo fa una riflessione su esperienze autobiografiche – in riferimento al nuovo brano lanciato (ndr) -. È una ballad intima che ha una visione dell’amore cinica e personale. Ciò non vuol dire che io non creda nell’amore e non lo idealizzi, ma è difficile, ci vuole molto impegno”. Amore quindi, tema che si introduce automaticamente nella conversazione.
Il cantante ci crede nell’amore? O è un disilluso? “Io credo nell’amore maturo. L’amore non è l’attrazione iniziale che può capitare tutti i giorni, ma sono due persone che vogliono costruire qualcosa”, banale certo, ma non molto a quanto pare, visto che l’amore del terzo millennio sembra avere durata sempre più breve, in media. “Stare insieme non è semplice: si cresce, si cambia e non è detto che se stai 10 anni con una persona rimanga la stessa che hai conosciuto”. Quindi, anche la longevità può non significare molto.
Il passato turbolento
Il giovane cantante oggi ha 33 anni, anche se ovviamente ne dimostra di meno. La sua carriera è stata un’escalation in positivo, la ricorda con fierezza: “Ho fatto un percorso pazzesco – ammette -, ogni disco è una fase diversa”. Nel palmares ci sono cinque apparizioni al Festival di Sanremo, anche se il numero non dovrebbe crescere secondo le sue intenzioni, e c’è anche “un tour con orchestra”. Per molte persone, quella che ha lui ora è l’età in cui si inizia ad esprimere al meglio il talento, che comincia a venir fuori. Il giovane artista nato a Verona, invece, fa “difficoltà a trovare quel che non ho fatto”.
In molti amano dare etichette, lo hanno fatto e lo fanno anche con lui: “Io ho cercato di portare sul palco la mia anima. Se sono stato percepito come uno stendardo di libertà, fluidità, essere chi si vuol essere, ne sono contento. Ma non mi sono mai proclamato paladino di qualcosa, ho fatto quel che sentivo”. Ognuno interpreta a proprio modo il messaggio trasmesso: qualsiasi risultato se ne scaturisca, all’artista va bene.
Farsi capire non è necessariamente importante: “Non mi aspetto che la gente mi capisca, ma cerco di essere sempre un po’ più avanti e spero che questo crei dibattito. Tanti che mi hanno visto con la tutina a Sanremo avranno detto “questo da dove è uscito”, ma sono tutt’altro che un prodotto di marketing”.
Infine, nella lunga intervista si è parlato anche del passato, dell’adolescenza del cantante. Nonostante la sofferenza e le difficoltà, comprese quelle per le quali ha rischiato di non poter scrivere la stessa storia vista sino ad ora, si ritiene fortunato rispetto a molti coetanei: “Scrivere è anche conoscersi e curarsi. Se non avessi scritto non so che farei oggi, c’era qualunque rischio. Vengo da una situazione familiare complessa, dalla periferia violenta. Ero un turbolento minorenne e scrivere è stata una specie di terapia”.