Mangiare in un ristorante stellato spesso è sinonimo di ambiente sereno, rilassante, dove tutto funziona: nessuno si immagina cosa succede in cucina, tra “stress elevatissimo e paghe da terzo mondo”. L’intervista
Dipendenti non retribuiti regolarmente nei ristoranti stellati, e quando prendono i soldi sono spesso “paghe da fame”. Denunce su denunce, che fanno scalpore, clamore, visto che sono condizioni che non ci aspetteremmo mai in luoghi simili. E alcune segnalazioni le fanno anche gli chef, pure i più famosi. La convinzione generale è che certi ‘report’ appartengono solo a realtà minori, differenti. Today ha fatto giornalismo d’inchiesta per andare a scoprire queste situazioni, intervistando un ragazzo di 30 anni al quale è stato dato un nome di fantasia: Alex. Il giovane è reduce da esperienze nel settore della ristorazione, comprese quelle in due ristoranti stellati del Nord .
Il racconto: “14 ore di lavoro per neanche 4 euro all’ora”
“Nel 2021, dopo alcune esperienze lavorative in cucina, ho lavorato per un anno in un ristorante con una stella Michelin”, confessa Alex parlando con i giornalisti del quotidiano con sede a Napoli e diretto a Roma. “Non avevo mai lavorato a quei livelli, ero pronto a mettermi in gioco. Mi hanno offerto un contratto come aiuto cuoco: sulla carta part time 20 ore per 600 euro, ma mi hanno subito detto che l’orario sarebbe stato full time e che mi avrebbero dato altri 600 euro, però fuori busta”.
Il protagonista del racconto spiega e motiva la scelta di accettare l’incarico: “Ero affamato e sprovveduto, sapevo che in alcuni posti addirittura sei tu che paghi per poter lavorare ed ero disposto a tutto. Per cui ho accettato. Avevo anche l’alloggio, se così si può dire: una casetta di 30 metri quadri, due stanze in cui vivevamo in 5-6 persone, a un livello che definirei neanche studentesco. Però in casa non ci stavo mai se non per dormire”.
Insomma: ingolosito dal prestigio del ruolo, oltretutto la sua passione, e del luogo, essendo un locale stellato Michelin, non ci ha pensato due volte prima di accettare. Tuttavia, si è presto reso conto che la sua vita era confinata in piccoli spazi limitati. Di libertà, neanche l’ombra: “Entravo alle 9 del mattino e finivo il primo turno alle 15.30, poi un’ora di pausa per riattaccare alle 16.30 fino a mezzanotte, arrivando a fare sei giorni su sette d’estate”.
Un tour de force che avrebbe stroncato la sua tenacia e l’intraprendenza, la volitività era ormai andata a farsi benedire. Da calcoli, il ragazzo non prendeva neanche 3,6 euro all’ora. Considerate le 14 ore di impiego quotidiano, le 84 settimanali da raggiungere (oltre il quadruplo rispetto a quando scritto da contratto!) e le 336 ore mensili, pagate 1.200 euro (di cui 600 euro in busta paga, il resto ‘fuori busta’, pratica ormai diffusa nell’ambiente), al 30enne restavano poco più di 3,5 euro di guadagno in un’ora. “Dopo tre mesi ho chiesto un aumento di 200 euro perché pensavo di meritarmeli: mi hanno detto di no”.
L’altra esperienza nel ristorante stellato
Non è tutto, perché Alex ci ha riprovato: credeva e sperava che esistesse il locale giusto per lui, dove avrebbe potuto esercitare la professione che è anche la sua passione, senza rimetterci la salute e senza perdere la libertà. “Quando ho fatto il colloquio con lo chef, la prima cosa che mi ha detto è stata: ‘Io qui ti sto dando un’opportunità’, per mettere subito in chiaro le cose. Mi ha offerto un inquadramento più alto, da aiuto cuoco a cuoco capo partita, però sempre part-time sulla carta e per lo stesso stipendio. Lavoravo 12 ore al giorno per 600 euro in busta e 600 fuori busta”.
Sebbene le condizioni fossero sensibilimente migliorate, sostanzialmente non parliamo di più di 4,2 euro all’ora. Sempre troppo poco, “da fame”, come sottolinea il 30enne. Ha detto di aver lavorato in nero per i primi due mesi, poi “lo stipendio è passato a 1.500 euro”. Salendo a 5,2 euro all’ora. “Lo facevo perché non avevo spese, altrimenti non avrei potuto accettare”, giustifica il ragazzo.
Le pressioni in cucina, non solo paghe da fame
Non si tratta solo di una denuncia che mira ad evidenziare i camerieri sottopagati: il 30enne Alex sostiene che il clima è troppo teso per eseguire un lavoro ben fatto in cucina: “Il clima è allucinante a livello psicologico e bisogna partire dal punto che, se sei l’ultimo arrivato, qualsiasi cosa tu faccia è sbagliata. Da un lato questa cosa ti sprona al miglioramento, dall’altro è demotivante. Vieni schiacciato dallo chef o da chi comunque è sopra di te”.
Anche lui oggi è diventato così, non lo rinnega in realtà. Ritiene che grazie a questa dura formazione oggi è riuscito ad ottenere i propri risultati. Ma ne ha mangiato di pane duro, altroché: “È la mentalità della cucina ed è circolare: quando sali di livello, poi diventi tu quello che se la prende con chi è sotto di te, e così si autoalimenta questo circolo vizioso. Io ho visto letteralmente volare piatti e padelle. Una volta ho bruciato la crema pasticcera: lo chef mi ha sollevato di peso, mi ha sbattuto contro il muro e ha lanciato la pentola di crema rovente per aria, che mi è caduta addosso. Per fortuna non sul volto, visto che una crema pasticcera è a 80 gradi e mi sarei bruciato. Stavo per mettermi a piangere, ma alla fine com’è andata? A lui nessuno ha detto niente, invece hanno sgridato me”.
“La sera esci e piangi”
Ricordare queste cose fa male, anche se, come si dice, tutto serve per fare esperienza. Il ragazzo ammette: “Ci sono rimasto molto male, però devo dire che non ho più sbagliato una crema”. Alex definisce il clima come “un regime di terrore”, non adatto a tutti: “Conosco persone che, arrivate già magari al grado di sous chef, hanno mollato tutto e cambiato completamente lavoro, perché i sacrifici erano più grandi delle soddisfazioni e perché se non sei portato a reggere certi livelli di stress non ce la fai. E poi c’è molta competizione, si vuole scavalcare gli altri: io ho visto con i miei occhi manomettere le preparazioni di altri colleghi per rovinarle. Di sano in cucina c’è poco”. Racconti che non ci aspetteremmo mai in ristoranti simili, eppure è così.
“È vero: è bruttissimo, la sera esci dal lavoro e piangi, pensi “ma chi me l’ha fatto fare”… Alla fine stiamo facendo da mangiare, non facendo un intervento a cuore aperto. Ma l’ambiente in cucina è quello, funziona a piramide come un esercito, però funziona. Diventi un robot, un ingranaggio della macchina, ma per arrivare alla perfezione non c’è altro sistema. Inizialmente, quando guardavo i miei superiori, pensavo “non vorrei mai diventare come lui, prendermela con l’ultimo arrivato”: ma ora che sono chef mi rendo conto che lo faccio anche io. Sono diventato quello che non avrei mai voluto essere, perché la frustrazione ti porta a essere così”.
Terrore in cucina e paghe da incubo: perché questa situazione in un ristorante stellato Michelin?
Come spiegano gli esperti, essere in possesso del prestigioso riconoscimento non è necessariamente sinonimo di ambiente più abbiente, tutt’altro. Aumentano le spese, “si alza l’asta dello sfruttamento”. Inoltre, “non è facile essere in attivo in uno stellato che ha 12 cuochi per trenta coperti”, segnala Leonardo Lucarelli, scrittore e chef. Alex approva:
“Uno stellato Michelin ha tantissime spese in più rispetto a un ristorante normale: hai molti dipendenti perché ci sono molte lavorazioni da fare, le materie prime costano di più, tutto deve essere perfetto e di alta qualità, non solo il cibo: dal materiale del piatto alle tende in sala. E il costo più alto dei piatti non è direttamente proporzionale ai costi maggiorati. In sostanza gli stellati, almeno quelli in cui ho lavorato, restano aperti per passione e perché i proprietari hanno alle spalle altre entrate. Le stelle Michelin sono una condanna, infatti molti chef le rifiutano”.
Se da un lato è un’etichetta importante, dall’altro è una limitazione. “Non cambierei niente, mi riprenderei tutta la frustrazione, perché se sono arrivato a essere chef di cucina è grazie a quello, mi ha trasformato in quello che sono – conclude il ragazzo, non rinnegando niente -. Ingoiare m*rda mi è sicuramente servito a essere un cuoco migliore, anche se non una persona migliore forse, perché sicuramente ho ‘guadagnato’ molti difetti, visto che questo lavoro ti porta a stare male a livello psicologico”.
E sul futuro: “Vorrei aprire un locale mio, ma sicuramente non uno stellato. La grande lezione che mi hanno dato questi ristoranti è che non puoi lavorare bene se non vivi bene e non dedichi tempo a te stesso”.