Da calciatore miliardario a muratore. Tra tutte, lo ricordiamo specialmente con la maglia dell’Inter, la squadra più forte in cui ha giocato. Fabio Macellari era un difensore tosto, che piaceva. Aveva 26 anni quando vestiva la maglia nerazzurra. Nato a Sesto San Giovanni, l’esterno sinistro è riuscito nella sua “missione”, come la chiamava lui stesso da bambino: approdare in Serie A. Ci è riuscito, indossando una delle maglie più prestigiose del nostro campionato. Raggiunto l’apice, come si suol dire, si può solo scendere. Ed è in quel momento che ha “imboccato la strada dell’inferno”.

L’abuso di cocaina segnò l’inizio della fine di una carriera chiusa prematuramente, alla sola età di 30 anni. Macellari oggi ha 49 anni ed è un muratore di Amatrice, impegnato in un’impresa edile che si occupa di ricostruire il comune colpoito dal devastante terremoto del 2016. Fabio vive con il figlio Matteo di 17 anni.

Il tunnel senza via d’uscita

Un infortunio segnò il declino del giocatore, precipitato nella spirale della droga dopo essere stato costretto al riposo forzato. “Mi sono fatto male dopo otto partite, è subentrata questa cosa nella testa, mi ricordo: vabbè dai, adesso visto che ho il ginocchio rotto mi rilasso un po’ qualche mese. Pur preparandomi a rientrare, perché poi in quattro mesi e mezzo ero quasi pronto, solo che nel frattempo c’erano tutte altre cose perché hai troppo tempo libero”.

Il troppo tempo libero l’ha sfruttato male: “Non l’avevo mai provata prima, io ho iniziato a fumare a 26 anni. Come succede? In questi momenti di pausa hai donne in qualsiasi momento, in qualsiasi modo – perché poi io sono anche un po’ figlio di mignotta – ma questo non bastava più, perché voglio dire se tu conosci una per mezz’ora e poi dopo 35 minuti sei a casa con lei… voglio dire non basta più niente. Arrivi al campo e ti buttano il fogliettino col numero di telefono, la conosci anche al al semaforo: ‘ci sentiamo? ti do il numero telefono?’, ‘va bene’. Cioè, capito, quindi non basta più niente, c’è bisogno di alzare la posta perché ti stavi annoiando”.

La prima volta con la cocaina

La vita “facile”, la vita da calciatore. Se non si ha sangue freddo e tempra, ci si può perdere facilmente negli abissi del sesso e della droga. “La prima volta? A casa mia a Bologna. Dai proviamo questa cosa, tanto dentro la mia testa ho pensato: sono talmente mentalmente forte che io posso farlo e domani smettere. Questo è l’errore che fanno tutti quanti, cioè ci son cose sono più forti oppure sei tu presuntuoso. O le sottovaluti o sei presuntuoso, comunque è da lasciarle perdere, ci sono delle cose proprio che bisogna lasciare perdere, cioè non bisogna neanche iniziare, neanche se ti senti Superman perché è l’errore che poi ti compromette tutto. Da quel momento cosa cambia nella mia testa? C’è un mondo parallelo legato a donne di quel mondo e un mondo normale. La normalità non bastava più, Michael Douglas aveva quella malattia del sesso, io penso di avere avuto anche quella. C’erano delle delle donne che non erano belle, erano da copertina, delle donne pazzesche che non vedi nella vita normale. Il fatto di dire: ‘tu vieni qui e stai con me’ è sbagliato ma mentalmente è eccitante in maniera pazzesca. Quindi uno lo ha fatto perché è giovane, perché è stupido, perché voleva farlo e poi in più purtroppo è andato a sbattere in questa maledetta cosa”.

La serata tipo dei “tempi d’oro”: “Il mio periodo più buio”

“Nel periodo più buio ero da solo, compravo quei giornalini di Milano dove ci sono tutte queste donne bellissime, quindi mi organizzavo e facevo il tour direttamente a casa loro. Quindi io spendevo più soldi in realtà in donne che in cocaina. Averle senza pagare? Non c’era più gusto, qua c’era l’ebbrezza nel senso che tu, bellissima, non saresti mai venuta con me e invece io posso permettermi di comprarti”.

Quanto è durato questo periodo?

“Quello brutto brutto pochi mesi, perché poi a un certo punto ho deciso di staccare un attimo e di riprendere a giocare”. Brutto? “Nel senso che parlo di 10 grammi al giorno. Ecco ti parlo di una roba del genere, roba da matti”.

Non ha mai temuto per la sua salute? Un infarto? “Sì, un episodio mi ha fatto spaventare una volta, è stato a Porto Cervo. Dopo forse cinque giorni sveglio, mi sono trovato nella vasca da bagno calda e non mi ricordo in quel momento quanto ci sia stato in questa vasca da bagno. Stavo pensando che probabilmente era l’ultima volta che, a malapena, sono riuscito ad arrivare al letto a carponi e nel momento in cui mi sono sdraiato non ero sicuro più se mi sarei rialzato oppure no. Quando mi sono alzato, ho fatto le valigie e sono scappato in montagna da me e ho iniziato un programma da solo, proprio bello. Vita sana, da un momento all’altro. Non può esserci una gradazione, oggi così, poi di meno, no: o è sì o è no. Fine della storia”.

La mancata ripresa

Quando è tornato al Cagliari, ha trovato Ventura, il suo mentore. Era riuscito a riprendersi in mano la propria vita e il posto da titolare: “Vincemmo il campionato ancora dalla B alla A, con Gianfranco Zola, con Gianluca Festa, insomma la squadra era bella, era forte. Io ero titolare, però nel frattempo stavo già iniziando a​ entrare nell’ottica di sbagliare”. Tradotto: ancora la droga, la cocaina. “Ho chiamato il presidente Cellino e gli ho detto: non ci siamo, così non posso andare avanti, perché non posso neanche prenderti in giro per il rapporto che ho con te. È capitato una volta che alla fine di una partita la prima cosa che ho fatto è stato uscire dallo stadio e andare a prendere la cocaina, a quel punto lì mi sono reso conto… che poi è durata tutta la notte, tutta la notte in giro per Cagliari fino a che sono tornato a bussare alla porta di Claudia piangendo e quindi lei mi ha riaperto… Allora ho detto la verità al presidente e ho smesso quei mesi lì, e sono stati poi quei mesi da pazzo che facevo su a Milano, non volevo nessuno attorno, andavo in giro come un pazzo tutto il giorno”.

Aveva poi giocato per altre piccole realtà, ma il Macellari che sfornava cross perfetti dalla sinistra non esisteva più. Nel 2006 si ritirò dal calcio professionistico per giocare tra i dilettanti per una decina d’anni, parlallelamente già faceva altri lavori per vivere. Eppure “avevo dieci appartamenti”. Tuttavia, conoscendo i propri limiti, afferma: “Se adesso c’è ancora qualcosa, è bene che sia intestato a mio padre e mia madre, quindi sono con le spalle coperte, la fortuna è questa, perché sennò altrimenti io veramente ho le mani bucate, ma non perché usando quella cosa, perché poi alla fine ho un rapporto coi soldi che che se li ho in tasca dico ‘oggi offro io’, perché so che domani offrirai tu. In realtà spesso e volentieri trovavi gente che poi alla fine ti erano intorno per sfruttarti e basta”.

Panettiere, camererie e operaio

Dopo il calcio, è arrivato il lavoro umile, quello “normale”. “Il panificio di questi miei amici a Bobbio è stato il mestiere più duro che abbia mai fatto nella mia vita, in realtà non più duro perché quando sei dentro lavorare nel panificio è bellissimo, impari delle cose nuove, è una figata pazzesca. C’è un problema, che tu stravolgi la tua vita e la paghi, perché tu sei ti alzi a mezzanotte e finisci di lavorare alle sette e mezza e non riesci andare a letto, non puoi neanche andare, quindi dormi a tratti durante la giornata e quindi è terribile, anche perché io, per come sono fatto io adesso, la mia libidine è se alle cinque e mezza o alle sei o alle nove finisci di lavorare, prendere e stare a casa. Eh cazzo, così è bello. Una mazzata quel lavoro lì, però comunque serviva. La vita normale è dura”.

Il ristorante in Sardegna, dove ha lavorato come cameriere: “Il ristorante a Quartu Sant’Elena era partito benissimo, tanto che voglio dire eravamo quattro in sala più tre cuochi. Facevo il cameriere, perché mi piace, perché mi vengono a trovare tifosi, mi vengono a trovare delle amiche, degli amici, mi piace il contatto con la gente e quindi è una cosa che mi piace insomma”.

Nei boschi per tagliare la legna: “Io ho la fortuna di famiglia di avere questi boschi, questi campi, questi terreni che sono parecchi ettari e a questo punto non faccio altro che pulire i boschi, perché la cosa che non si dice mai che la tagliare la legna non significa tagliare la legna e basta. È come tagliare i capelli, perché se gli alberi continuano a crescere muoiono quelli a fianco se non hanno la distanza esatta, quindi si puliscono i boschi tagliando la legna anche per questo motivo, perché devono ricrescere. Quindi faccio solo questo lavoro, non vado a tagliare alla cavolo di cane, quindi si taglia quel poco indispensabile per poi poterlo bruciare per casa d’inverno oppure venderla. Quanto ne taglio da solo al giorno? Tranquillo 15/20 quintali”.

Boschi nei quali tornerà dopo aver compiuto un’altra missione importante della sua vita, quella della mezza età: aiutare Amatrice a risollevarsi. In futuro si vede tra i boschi delle Valli Piacentine: “L’idea è quella di stare su al mio casolare e risistemare due-tre stanzettine e probabilmente fare un bed and breakfast. Matteo sarà già grande a quel punto quindi potrà trovarmi li, oppure io trovare lui in qualsiasi momento perché ormai sarà grande e spero che abbia la sua vita, vorrei che vivesse il mondo, che esplorasse. Non ho altri sogni sinceramente. Io sono felice così come sono adesso. Io lo capisco, non so come a volte non riescono a capirlo tante altre persone, cioè non c’è bisogno per forza di andare in giro in Ferrari o di essere tutti i giorni al ristorante a mangiare ostriche. Quando sei così appagato, che altro mi devo inventare? Chi se ne frega, cioè va bene così”.

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