Il rapimento De Andrè e Dori Ghezzi raccontato da loro stessi
Oggi ricorre il 45esimo anniversario del rapimento del cantante Fabrizio De Andrè e della collega e compagna (poi moglie) Dori Ghezzi. Erano nella loro fattoria e vennero rapiti all’Agnata, nei pressi di Tempio Pausania. Vennero fatti salire su un’auto mentre la domestica dava l’allarme. I rapitori dell’Anonima sequestri avevano studiato e controllato i movimenti dei due cantanti, servendosi di un binocolo per poterli osservare a distanza, fra i cespugli della fattoria. Poco prima della mezzanotte, partì il commando mentre Fabrizio e la compagna si apprestavano per andare a dormire.
Dori Ghezzi:
“Fummo presi e fatti scendere al piano terra, dopo averci fatto calzare scarpe chiuse e portato con noi alcune paia di calze. Ci fecero uscire dal retro della casa e fatti sedere sulla nostra macchina, una Citroen Diane 6. Prima di chiudere la porta chiesero a Fabrizio dove fosse l’interruttore per spegnere le luci del giardino”.
Il sequestro
Seduti sui sedili posteriori della Citroen, i cantanti, terrorizzati, venivano trasferiti nel luogo in cui avrebbero vissuto per mesi. Fu un’impresa raggiungere il luogo: per depistare le indagini della polizia, avevano lasciato l’auto nei pressi del molo di Olbia.
“Scendemmo definitivamente dalla macchina e iniziammo il tragitto a piedi per la campagna che alternava tratti scoscesi a tratti pianeggianti e poi ripidi, tra cespugli e rovi, con la testa incappucciata. Camminammo per circa due ore. Dopo una sosta di riposo, riprendemmo il trasferimento in percorsi ancora più accidentati, camminando per qualche ora ancora. Dopo di che, sfiniti, ci fermammo, trascorrendo la notte all’addiaccio. Il cammino riprese il giorno successivo, percorrendo un tragitto interamente in salita, fino all’imbrunire. Raggiunta la destinazione, per la prima volta ci tolsero le maschere e alla nostra vista si presenta la sagoma di un bandito incappucciato. Apprendemmo che si trattava di uno dei nostri custodi, che ci accompagnerà per tutta la prigionia e che Fabrizio battezzerà col nome “il rospo” per via della sua voce gracchiante”.
Fabrizio:
“I primi giorni non ci facevano togliere la maschera neppure per mangiare, e così ci tagliavano il cibo a pezzettini e ci imboccavano. È stata un’esperienza tremenda che tuttavia ha lasciato anche segni positivi, come la riscoperta di certi affetti nascosti. Nei confronti di mio fratello Mauro, ad esempio. È stato lui a trattare coi rapitori e non dimenticherò mai il nostro abbraccio appena tornati a casa. Il primo mese di sequestro ci hanno fatto compagnia le emozioni, poi è prevalsa la monotonia”.
Dori Ghezzi:
“Si cercava di far passare il tempo, ci inventavamo dei giochi stupidi pur di distrarci. Visto che procuravano le sigarette e i cerini per Fabrizio, lui era riuscito a creare delle carte da gioco. Abbiamo avuto paura, con dei cappucci in testa è difficile comunicare, dialogare, ce li toglievano solo per alcune ore. Fermo restando che ci avevano privato della nostra libertà, i nostri carcerieri si sono comportati in modo tutto sommato umano”.
“Quando è iniziata la stagione fredda ci hanno dotato di una piccola tenda per ripararci dalle intemperie. Abbiamo sostato in quel luogo fino alla interruzione delle trattative condotte dai secondi emissari. Le informazioni che ci davano erano che il padre di Fabrizio non volesse pagare il riscatto. Ci proponevano di liberare Fabrizio per pagare il mio riscatto o, viceversa, di liberare me affinché Fabrizio convincesse il padre a pagare la mia liberazione. Alla supplica di Fabrizio di alleviarci dalla torture delle bende i banditi acconsentirono, legandoci però con delle catene perché non scappassimo. Uno dei banditi, che di tanto in tanto veniva per accertarsi delle nostre condizioni, raccomandando ai custodi di trattarci bene, comunicava in italiano corretto e forbito, si esprimeva in modo calmo e gentile, che Fabrizio chiamava ‘l’avvocato'”
“Dopo il 5 novembre siamo stati nuovamente spostati su un altro versante della montagna. In quel rifugio le tende erano due, una per noi e una per i custodi; ci dotarono anche di un fornello da campo e di una bombola di gas per preparare cibi caldi. Fino ad allora ci nutrivano con pane e formaggio, salsiccia e scatolame”.
De Andrè:
“I rapitori erano gentilissimi, quasi materni. Sia io sia Dori avevamo un angelo custode a testa che ci curava, ci raccontava le barzellette. Ricordo che uno di loro una sera aveva bevuto un po’ di grappa di troppo e si lasciò andare fino a dirci che non godeva certo della nostra situazione. Anzi, arrivò a sostenere che gli dispiaceva soprattutto per Dori“.
“Quelli del Gallurese, dove stiamo noi sono molto più continentalizzati del resto dei sardi. Quelli che ci hanno rapito invece venivano dal centro della Sardegna, da quell’isola che si chiama Barbagia dove si continua a credere che il privilegio sia togliere qualcosa agli altri, per esempio la libertà. Dove si tramanda di padre in figlio un’abitudine vecchia di duemila anni, come quella di sequestrare animali o persone. E dove non cambierà niente fino a che non ci faranno un’autostrada che li collegherà col resto del mondo”.
“Ci sono stati giorni che pensavamo di non riuscire a sopravvivere a quelle condizioni estreme. Conservai il tappo di una scatoletta, non si sa mai che avessi potuto usarlo qualora le forze non mi avessero sorretto“.
Il rilascio
Il 20 dicembre del 1979, alle ore 23, Dori Ghezzi venne rilasciata ad Alà dei Sardi, dopo mesi di prigionia tra le montagne fra Pattada e Oschiri. Dopo una lunga trattativa, parallela alle indagini per rintracciare i rapitori, venne pagato il riscatto di 550 milioni di lire. Altri 50 milioni di lire sarebbero dovuti essere consegnati in seguito alla liberazione di De Andrè, che rispettò il patto.
Dori Ghezzi:
“Il 20 dicembre il mio guardiano mi disse che avevano deciso di liberarci. Verso le 15 ci incamminammo a piedi percorrendo un tratto di terreno molto scosceso, col viso incappucciato. Camminammo per almeno tre ore. Passammo vicino ad una cascata d’acqua, poi attraversammo un fiume. Sentivo l’abbaiare di cani, presumo vicino ad un casolare o forse un ovile; lo intuisco da alcuni rumori. Aspettammo tante, tantissime ore vicino ad una strada nascosti tra i cespugli fino a notte inoltrata. Sono circa le 23 quando finalmente arriva una macchina che ci carica a bordo. Io ero sempre con le mani legate e mascherata, sorvegliata dai due banditi. Dopo un po’ di strada, forse mezz’ora, mi fecero scendere lasciandomi sul ciglio della strada in attesa che gli emissari mi venissero a prendere”.
Quella sera, il compagno era rimasto in tenda con il carceriere. Il giorno dopo abbandonarono il posto.
Fabrizio:
“Dopo alcune ore di marcia in compagnia del mio guardiano raggiungemmo una strada asfaltata. Mi disse di aspettare che sarebbero venuti a prendermi per accompagnarmi a casa. Dopo qualche ora di attesa mi raggiunge l’emissario, ora apprendo che si trattava di G.C., il quale mi fa salire sui sedili posteriori dell’auto. Mi porterà fino all’abitazione di Portobello, dove mi attendono i miei familiari”.
Era quasi la vigilia di Natale, ore 21 circa del 21 dicembre e anche Fabrizio ottenne la libertà a 117 giorni dal sequestro. Venne rilasciato a Buddusà. I dodici uomini che rapirono la coppia finirono in manette, condannati in via definitiva nel novembre di sei anni dopo.