Quando Maestrelli privò D’Amico della patente e del conto in banca: “Altrimenti ti bruci la carriera!”. Il conto in banca congelato, la lite con Bearzot, il dolore dell’inspiegabile morte dall’amico Luciano Re Cecconi
Il rapporto tra D’Amico e Maestrelli: sapevate che l’allenatore dello scudetto biancoceleste gli fece congelare il conto in banca? Vogliamo parlarvene oggi, alla notizia della morte di Vincenzo D’Amico, storico ex calciatore della Lazio, abile assistman e punizionista doc sul campo, saggio e pacato nei panni di opinionista, il Golden Boy della Lazio ci ha lasciati prematuramente, all’età di 69 anni. Nato il 5 novembre del 1954, Vincenzo è cresciuto a pane e calcio, sfiorando addirittura il settore giovanile della Roma. Ma nel suo destino c’era altro. Uno scudetto con la Lazio ma anche tanta, tantissima sofferenza. Quella sul campo, quando un infortunio stava per stroncargli prematuramente la carriera, e fuori, quando Maestrelli doveva tenerlo a bada dato il suo carattere indisciplinato.
Burrascoso, libero e refrattario alle regole, D’Amico era un miracolo che si esprimeva liberamente e senza le catene del conformismo, calcistico e non, come si addice ai talenti da “genio e sregolatezza”. Ma senza la direzione tecnica e spirituale del suo Maestro e mentore, Tommaso Maestrelli, oggi forse parleremmo di altro. Il Maestro lo teneva a bada fuori dal campo, domandolo con alcune ferree regole che prevedevano il congelamento del suo conto in banca e la privazione della patente di guida. “Così non fai sciocchezze, altrimenti ti bruci la carriera”.
Il dopo Maestrelli: quando D’Amico fu visto piangere a Roma: era stato ceduto e i soldi del trasferimento salvarono i conti della Lazio
Era la stagione 1979-80 e la Lazio retrocedeva in Serie B. Il club doveva fare cassa e per questioni di bilancio, Vincenzo dovette passare al Torino. Un doppio smacco per il cuore di D’Amico, rimasto sempre il Golden Boy dei biancocelesti. Allora salvò la Lazio dal fallimento e, quando fece ritorno, la salvò da una spaventosa retrocessione in Serie C, contribuendo alla permanenza alla seconda divisione italiana.
La lite tra Vincenzo D’Amico e il ct Enzo Bearzot
Nel settembre del 1980, Vincenzo D’Amico fu convocato per la prima e ultima volta da Enzo Bearzot. Il ct dell’allora Nazionale italiana lo aveva selezionato tra i papabili da far scendere in campo contro il Lussemburgo e la Danimarca. Tuttavia, l’allenatore gli preferì altri giocatori. Litigarono e, tre mesi dopo, D’Amico denunciò l’accaduto per mezzo stampa, accusando il ct di averlo escluso senza alcuna spiegazione.
La tragica e inspiegabile morte di Re Cecconi
Non molto tempo fa, D’Amico ricordava Luciano Re Cecconi, storico centrocampista della Lazio negli anni in cui anche Vincenzo militava nella squadra capitolina. Il 18 gennaio del 1977 Luciano fu trovato morto dopo essere stato raggiunto da un colpo di pistola in una gioielleria romana. Non si è mai capito il motivo dell’omicidio. Vincenzo è morto lo scorso anno, lasciando la moglie Elena e il figlio Luciano, chiamato così proprio in onore del suo ex compagno di squadra. Quando comunicò questa informazione, ricordando l’amico ucciso, disse: “Comunque quella non fu una sparatoria, ma un omicidio”.
Quella sera, Luciano era nella gioielleria di Bruno Tabocchini, in via Francesco Saverio Nitti, civico numero 68. La zona è una delle più “in” di Roma, la nota collina Fleming. Il pomeriggio si era recato nella profumeria di un amico, Giorgio Fraticcioli, insieme al collega Pietro Ghedin. Giorgio ha chiesto ai due calciatori di accompagnarlo proprio nella gioielleria dove sono avvenuti i macabri fatti. Erano giunti poco prima delle ore 19.30. Quando Luciano è entrato nel negozio, aveva il bavero del cappotto alzato e le mani in tasca. Pare che in quel momento, per goliardia, Re Cecconi abbia intimato al gioielliere di alzare le mani: “Fermi tutti, questa è una rapina!”. Il commerciante era reduce da una recente esperienza in cui era stato rapinato e aveva ferito un rapinatore, facendolo arrestare.
Quella sera estrasse un revolver calibro 7.65 e lo puntò contro i due calciatori. Ghedin fu più lesto ad alzare le mani in alto, al contrario, Luciano fu freddato per l’impeto dato dall’istinto di sopravvivenza del gioielliere. Pare che il calciatore biancoceleste, una volta a terra, avesse avuto la forza di pronunciare tali parole: “Era uno scherzo! Era uno scherzo!”. In quegli istanti, Ghedin credeva che il collega stesse ancora scherzando, fin quando non vide il copioso sangue fuoriuscire dal torace. Alle ore 20.04, il calciatore fu dichiarato morto. Ghedin era talmente scosso che fu preda delle convulsioni e riuscì a deporre solo dopo ore. Il gioielliere fu arrestato per “eccesso colposto di legittima difesa”.
18 giorni dopo, il gioielliere è stato assolto dopo il processo per direttissima: “Legittima difesa putativa”. L’errore era dovuto ad un fraintendimento della situazione. Quando il gioielliere fu intervistato, disse di non aver riconosciuto i calciatori perché non era un appassionato di sport. Il pm Franco Marrone affermò: “La motivazione della sentenza è stata giuridicamente e tecnicamente scorretta. Il Tribunale pervenne al suo convincimento omettendo di valutare dovutamente tutti gli elementi emersi”. In seguito, molti compagni del tempo dissero che era impossibile che il calciatore avesse fatto uno scherzo simile, noto per essere il “saggio” del gruppo. Lo stesso gioielliere aveva fatto mettere a verbale che niente di ciò che fece Re Cecconi potesse alludere allo scherzo. Lo stesso D’Amico una volta disse: “Allora, quello che è successo in quella gioielleria non si saprà mai, perché nessuno, anche i presenti…, nessuno è riuscito a dare una spiegazione. Io non credo che lui sia entrato, dicendo “Questa è una rapina!”, come hanno raccontato per giustificare “Pecos Bill”, il gioielliere”.
Nel 1977, il giornalista Martucci fece tornare a galla il caso, sottolineando come in realtà lo scherzo fosse partito dallo stesso gioielliere, anche perché il profumiere Fraticcioli era suo amico e se non avesse riconosciuto i due calciatori, sicuramente avrebbe individuato presto il conoscente. Franco Melli invece ha sempre ritenuto che il calciatore fosse morto “per gioco”. Il caso resta ancora avvolto dal mistero, a 47 anni dai tragici fatti.